SUL FILO DEGLI AFFETTI
IL SOGNO DI ARIANNA
Arianna Lanci, mezzosoprano
Giovanna Barbati, viola da gamba
Chiara Cattani, clavicembalo
Programma
- Monteverdi (1567-1643), Lamento di Arianna a voce sola SV 22
- Monteverdi, Madrigale diminuito ‘Crudel perché mi fuggi’
- Strozzi (1619-1677), L’Eraclito amoroso: Udite amanti (da Cantate, ariette e duetti, Op.2)
- Bembo (ca.1640-1720), Anima perfida (dalle Produzioni armoniche)
- C. de La Guerre (1666-1729), La Flamande (dalla Suite in Re minore)
- Scarlatti (1660-1725), Dove alfin mi traeste, ovvero l’Arianna
- C. de La Guerre, Adagio, Presto, Adagio, Presto (Dalla Sonata n.1 in re minore)
- F. Sances (1600-1679), Usurpator tiranno (da Cantade & arie, libro secondo)
“Vi sono passioni che restringono l’anima e la rendono immobile… altre l’allargano e la proiettano fuori.”
Blaise Pascal (1623-1662), da “Discorsi sulle passioni d’amore”
Figura mitologica e letteraria, alla quale si legano fin dall’antichità molteplici letture poetiche, musicali ed iconografiche, Arianna rappresenta nel repertorio vocale di epoca barocca il simbolo della donna la cui cifra è una condizione esistenziale ed emotiva estrema, eccessiva. L’abbandono cui è condannata diviene la causa di quel pianto inconsolabile che si fa necessariamente canto, veicolando l’intera gamma degli affetti tanto cari all’estetica barocca: i diversi accenti con i quali la principessa cretese viene dipinta musicalmente (la disperazione, il furore, la rassegnazione, il desiderio di vendetta o il perdono) tratteggiano così l’immagine della relicta, evocandone la voce attraverso il testo poetico-musicale. Come autentica figura del lamento Arianna ci racconta in prima persona la profondità dell’universo femminile con tutta la forza e l’attualità di cui forse soltanto i miti sono capaci, divenendo nell’ambito di questo programma il centro di una esplorazione di alcune tra le più raffinate e intense pagine del barocco musicale tra il primo Seicento e il primo Settecento, in un duplice contesto culturale, italiano e francese. Il concerto prende avvio con il celebre lamento monteverdiano, unica gemma a noi rimasta dall’ Opera L’Arianna, rappresentata nel 1608 al Palazzo Ducale di Mantova. Proprio questo brano, che costituisce una scena teatrale in se stessa autonoma e potente, impose definitivamente il genere “lamento” come uno dei “topoi” più amati del teatro per musica delle origini, conducendo lo spettatore di oggi al centro del nuovo stile di canto monodico fiorito in Italia a cavallo tra il Cinquecento e i primi anni del Seicento: il recitar cantando, dal quale ha avuto origine appunto il melodramma. In questo nuovo genere il canto si colloca a metà strada tra la voce cantata e quella parlata sia per l’aspetto ritmico che per quello intervallare, con il fine essenziale di muovere gli affetti in coloro che ascoltano. Il canto amplifica infatti la portata espressiva della parola, ponendosi al suo servizio, e facendo del cantante un vero e proprio attore in grado di esprimere del testo poetico sia la sfumatura più sottile che il dramma più intenso, mettendo in gioco la sua stessa fisicità nella capacità di dare corpo ai sentimenti secondo quella che verrà definita Teoria degli affetti. Il cosiddetto “cantare affettuoso” esalta dunque il forte impatto psicologico della musica su di un uditorio disposto a lasciarsi commuovere ponendo al centro dell’ascolto la propria stessa soggettività. Nel solco di questa estetica si colloca l’opera di due grandi figure femminili del barocco veneziano: Barbara Strozzi, cantante virtuosa oltre che geniale compositrice, e Antonia Bembo, la quale, nata circa vent’anni dopo rispetto alla prima, fugge da Venezia a Parigi intorno al 1676, riscuotendo l’apprezzamento di Luigi XIV per le sue eccezionali doti di musicista. E alla corte del Re Sole incontriamo l’altra grande compositrice presente in questo programma, Elisabeth-Claude Jacquet de la Guerre: clavicembalista, organista, e cantante virtuosa al servizio di Luigi XIV, ma anche musicista indipendente al di fuori dall’ambiente regale. Al cuore del concerto si colloca la cantata da camera di Alessandro Scarlatti Dove alfin mi traeste, un’autentica rarità per l’ascoltatore moderno, di cui le interpreti hanno inciso la prima registrazione mondale. Donna smarrita e spaesata, in preda alla più furente rabbia verso l’uomo che l’ha ingannata e abbandonata, l’eroina cretese in questa versione scarlattiana sceglie infine di abbracciare in maniera totale e senza riserve la via del perdono, discostandosi radicalmente da una lunga tradizione barocca di Arianne, prima fra tutte quella monteverdiana. La donna ha superato infatti il furor distruttivo della seconda aria della cantata per tornare ad essere la fanciulla innamorata di un tempo. Per la prima volta la linea melodica si ammorbidisce e la voce si muove con andamento fluente e leggero. Il perdono di Arianna sovrappone così all’idea classica dell’amante abbandonata quella di una dedizione quasi mariana, la stessa che spingerà forse Griselda, la protagonista dell’ultima opera di Scarlatti, ad accettare infine i soprusi del marito. Chiude il concerto un brano assai noto del compositore romano Giovanni Felice Sances, tra i primi ad associare il termine ‘cantata’ ad un pezzo vocale.